Letters to his “Last Clemàtide” (1936-1938)

The other writings donated by Martino Zanetti consist of 228 letters sent from D’Annunzio to Countess Evelina Scapinelli Morasso, whom the poet called Manah, Maya or Titti. Before turning 30, Evelina was a frequent guest at the Vittoriale from 1936 to 1938 and had a very intense erotic and romantic relationship with the writer. She was the final love of D’Annunzio, who was about to turn 75. Cultured and witty, Evelina was not one of the anonymous admirers and sex workers who thronged the poet’s door in recent years. She was the wife of Count Scapinelli, with whom she had a daughter. More importantly, she was the daughter of Mario Morasso, a friend of D’Annunzio and ideologist who influenced many avant-garde movements, beginning with Futurism. She was introduced to the writer by Antonietta Treves, la Comarella: “You wanted to and succeeded in giving me a final living gift”, D’Annunzio wrote to Antonietta on 4 June 1936. “No one could recognize its value better than me”. Elegant, wispy, tapered in long tailored dresses, she liked having her photo taken in profile, with a stern expression, her gaze lost in the distance or turned towards the camera, with a hint of satisfied naivety. In her home in Milan on Via della Spiga, she surrounded herself with elegantly bound books, plants, flowers, paintings and sculptures. She “has her defects”, D’Annunzio confided to Baccara on 31 May 1936, but she is “a high-class woman” – “Finally”, he concluded, “after so many tame women”.

It seemed to him like the herald of a final hedonistic “youth”, but it became a long addendum of happiness and torment. Afterwards, the fibre of the poet, already destroyed by tedium and tiredness, was left in pieces. Of love, nothing remained but a ghost, incapable of driving away the only reality looming ahead – death. D’Annunzio was aware of it, even as he sought refuge in words, in the game of poetic creativity that no longer offered consolation. It was as though his talent and art were now revealed as a crumbling mask. Or rather, perhaps the poetry itself condemned him: “Old age makes even a hero vapid and base”, he wrote to Evelina, the involuntary revealer of the truth: “I want to die”, he confessed, “You cannot love me. And I am so decrepit that I do not remember, in a prediction of many years ago, having chosen to love without being loved”. He did not lie or pretend, his letters exuded eroticism, pornography (even drawings), fear and a desire to die. In the replies now held in the Vittoriale, which will enable an extraordinary correspondence to be recreated, the young woman sought, in vain, to reassure him: “I beg you not to speak to me of old age. If you knew how much I have thought of you and desired you in only these two days apart. It is I who felt old and useless and stupid. You are my youth, my love, my breath”. Evelina knew how to arouse passion in D’Annunzio, flaunting carefully contrived clothing and dressing as a perfect femme fatale. “I am wearing a soft dress, full of flowers like your garden”, she wrote to him in July 1937. And also: “My legs sheathed in the brand-new stockings match the greatly praised perfection of Mistinguette’s legs”. Elsewhere she even promised to dress “in turtle to make the caresses slower”. D’Annunzio immediately gave her dresses, fabric, silver fox and perfumes, but he made do with a less experimental and demanding Chanel No. 5, “because it smells like you”, he lied. “I don’t need the dresses, I made myself beautiful for you, I was beautiful for you”, she wrote in October of 1937, after the poet had already ended the affair. Evelina made a sudden and seemingly inexplicable disappearance that only has one plausible explanation: the threat that lengthens one’s shadow, the old age that imposes a mysterious humiliation, the shame of being seen, a proud desire not to leave a trace of one’s decrepitude. It is better to break off and avoid – even to oneself – embarrassing comparisons to the past, to a vigour and youth that have faded forever. The aesthete who had lived for beauty no longer felt in harmony with the dream that had embodied and guided his life. It was as though that shameful senility forced him to declare himself incoherent – he could no longer accept himself, so Evelina was shown the door without warning or explanation. She was allowed to return, and gladly, but only as a friend.

Professor Giordano Bruno Guerri – President of the Vittoriale degli Italiani Foundation

N. 1_1_VOL1

Maya, veramente non so più come io viva. Vivo trasognando. Trasogno vivendo. Ora mi ricordo che scrissi alcune pagine su questo modo, in una terra estranea, a Zurich, dove oziavo d opo avere scritto un folto libro.

Trasognare in Maia.

Sono davanti all’ora più atroce – féroce! – della mia giornata. Mi debbo ràdere [disegno fallico] !!!

Ricorda alla dolce e burbera Aelis che io sono invitato a una seràta di Dissschi.

Mangia! Gabri

N.9_19_VOL1

Manah, dopo quella selvaggia febbre di iersera, dopo quella vorace voluttà tra due precipizii, io mi rifugiai nell’Officina con la Malinconia senza sussulti. Seppi che tu per fortuna e per saviezza eri andata a mensa con Luisa. Allora scesi nella nostra stanza, in quella del Prigione. Ti avevo dato tutto, con tutte le carezze. Ero insonne da tre giorni e digiuno da due. Dopo aver divorato la tua carne odorante, non avevo nessuna voglia di cancellare in me i tuoi sapori con gli intrugli della cucina comune. Ma fui preso da una specie di letargo, e non mi svegliai se non dopo la mezza notte.

Non venni a cercarti, per misericordia di te. Sperai che tu ricevessi dal Dio carnale il meritato sonno. Per disanimarti feci spegnere le lampade.

Ma la Dessa Voluttà, con le tue forme, si giacque meco.

Non mi eri piaciuta mai tanto. Anche le tue pesche liguri mi parvero scipite al paragone.

«Tre + tre + tre e una donna.» La donna assommava in sé cento + cento + cento frutti.

Sii laudata.

Io sono sveglio dalle sette, perché ho voluto salutare Luisa che partiva per la sua cura penosa.

Ora m’è detto che anche tu sei sveglia, e che hai preso prima il caffè e poi il latte!

Quando potrò baciarti le belle zampe?

Qui c’è un altro guaio.

Il camino del mio Bagno era per cadere. Gli operai lavorano sul tetto.

Posso salire per il consulto? Come vorrei ritrovare nel tuo stretto letto la voluttà di iersera, simile al delirio di un fauno e di una ninfa quasi iddia su l’orlo di una rupe tremenda!

Il mio letto è fresco. I colpi sul tetto rinnovellano il pericolo. È bello delirare con la minaccia delle tegole sul capo.

Ho sete e fame del tuo seno.

Gabri

18.VI.’36.

N.17_47_VOL1

Manah, dove sei? che fai?

sei perduta nei labirinti del Vittoriale?

tendi agguati nel Giardino?

Manah, io ho dormito, nel sogno tessendoti questa veste nera che si parta da’ tuoi òmeri bianchi senza offenderli.

Io solo potrò aprirla o sollevarla per toccare il tuo triangolo bruno là dove la tua pelle è ancor più tenue.

Io ora entro nell’acqua blu. Poi salirò all’Officina. E griderò senza musica finché tu accorra.

Ti offro il mio libro arcano, e pongo fra le pagine il mio segnale come vorrei porne uno tra le due carezze, o fra due pieghe del tuo spirito ove non è dato leggere.

Ariel –

N.21_60_VOL1

Disteso accanto a te io non potevo dormire, perché pativo tuttora la bruciatura dei tuoi baci parlanti. Tu respiravi come come una bimba innocente.

L’elmetto d’oro riluceva sul guanciale anche quando avevo spenta la lampada.

A tratti sfioravo i tuoi piedi e le tue gambe col pretesto di coprirti col velo di Agra.

Verso le otto il sonno di Fessònia mi ha abbattuto come un colpo di clava su la cervice. Mi sono svegliato dopo mezzogiorno, e ho cercato la mia compagna di notte. Il velo di Agra conservava le tue forme, ma tu eri fuggita con l’arte silente dei Sogni.

Ero sbigottito, perché temevo che tu ti fossi nascosta e volessi farmi paura. Dopo l’esplorazione cauta, ho indovinato che tu eri fuggita per il corridoio breve; ma per quale porta?

Quando fuggi, conosci tutti i passaggi e i pertugi; ma non quando vieni per il mio richiamo. Gatta pepaiòla!

N.60_162_VOL 1

Titti, sono rimasto a lungo nel tuo letto: nel tuo odore, nel pallido e arido fiore del tuo corpo magico, rimanendo pur sempre con la bocca premuta sul tuo cespo bruno, a tratti sonando il doppio flauto su le tue gambe di corritrice favolosa.

Ero ebro di te, e soffrivo di te.

Ora soffro di te. La gelosia di te mi tortura senza pause.

Bisogna che tu ritorni alla tua casa di seduttrice, e che tu mi lasci morire di consunzione.

Ero libero e insofferente.

Ora non posso se non morire.

Mi prolunghi nel sangue una febbre che i fantasmi attizzano.

E non ho la forza di ucciderti senza che tu abbia il tempo di guardarmi.

Sono fatto di te.

Ariel

15 ottobre

N.73_193_VOL2

Cara cara, io sono stato molto male fino a ora.

Ma più male, più male, pensando che tu sei qui e che non puoi – non devi – venire accanto a me.

Il mio male è irreparabile. Non avevo mai sentito fino a oggi, così profondamente, l’orrore della vecchiezza. Ecco che il coraggio mi manca: dico il coraggio di lottare.

Ho la morte nelle ossa: «la corporal sorella morte.»

Se tu non fossi qui, se io non dovessi accettare il tuo sacrifizio – io che in tutta la mia vita non ho accettato il sacrifizio di alcuno, pronto sempre io a sacrificarmi con un sorriso in pace e guerra – forse potrei sforzarmi di curarmi, di consultare il gran medico, con la speranza del miracolo di rivederti, di stringerti per un’ora a me. Forse.

Piccola, siimi indulgente e pietosa. Non è colpa mia che il carico degli anni mi opprima, e che io tanto ti ami.

Gabri

9 nov.

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Manah, ora sei una bella pietra liscia sotto la pioggia. Non puoi non puoi partire. Era scritto che tu rimanessi con me anche oggi. Non potrai riavere la tua macchina se non con un ordine scritto e firmato da me. Sei la mia prigioniera. Nel terzo giorno ti amo più che nel primo e nel secondo. Mi sembra di esser fasciato dalla tua pelle; né voglio escirne.

Non ho potuto dormire, bruciato e ribruciato dal tuo triangolo.

Quando potrò cercarti e trovarti?

Ora mi bagno non in acqua piovana ma in acqua blu. Come fui felice nella tua stanza chiusa, nel tuo letto stretto! Questa giornata lugubre è fatta per le esperienze che ti proponevo quando avevi il viso trasparente e fulgente, e la bocca un poco convulsa. So la maniera di baciarti le mani per turbarti…

Avevo stanotte per te queste pastiglie utili alla tua gola irritata dal troppo fumare.

Penso all’Auparishtaka, che ormai è la nostra carezza.

Ariel

29.V.

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Piccola – carnale e celestiale – ho mangiato come “un lupo della Maiella”. Tu sarai sola alla mensa!

Io mi son disteso. Poi mi rado, ohimei! La tua ultima carezza, in ginocchio, era più che divina. Il sapore della tua Rosa nella mia bocca era più che nettàreo. Il tuo cespo è la mia barba eterna.

Ti adoro senza sapere perché. Ti bacio quel che tu mi neghi.

Ariel

N.149_376_VOL3

Amica nemica; Delizia delle delizie, Tormentatrice di là da tutti i tormenti,

alla fine del tuo foglio tu mi raffiguri la tua bocca sovrumana nell’atto di farla più rossa col minio d’inferno… Volevi bruciarmi? sapevi di bruciarmi?

Piccola, piccola mia, sono stregato, sono attossicato. Non posso resistere fino a domani. Ti chiedo la carezza della bocca, quella dell’altra notte, con la Neve: nella piccola stanza dell’incantesimo e del precipizio, o nell’Officina, o nel letto del Prigione, dove tu vuoi.

Se io potessi ardirmi di dirti la mia scelta, io ti direi: «nella stanzetta fatata.»

Se non vuoi, mandami un cartello con una ingiuria sanguinosa (ahi!)

Ma, se hai il ricordo e la pietà, fammi sapere a voce il consenso con un semplice «Sì».

Perdonami. Ho ritrovato la tua scatola nielata dinanzi al tuo ritratto in piedi presso la Colonna.

Ti bacio la fica di là dalla sciagura senza rimedio, prima di domani. Il domani è sempre incerto.

Gabri

9. VII.

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Piccola dolce, volevo salire io stesso a portarti la medaglia d’Africa; ma mi sento male.

Certo, è bello – dopo aver tanto amato l’amata – sentire che l’amore supera il legame. Non riesco a persuadermi che domani non sarai più qui accanto a me – che questo ottobre di profonda beatitudine finisce, è finito.

Tutti i tuoi segni, tutti i miei, sono accanto al nostro letto. Avevo cominciato a togliere le cose care dai due piani di marmo rosso e di bronzo dorato, che mi facevano tremare per la tua folle testa d’oro. La gola mi s’è stretta; e ho dovuto interrompere, lasciar tutto lì.

Mai, piccola, mai mi son sentito così legato a un’altra creatura. Credilo: mai.

Basta che tu ripensi a queste ultime settimane: ai nostri ultimi sonni dopo le voluttà estenuanti.

Più tardi verrò a rivedere il Covo e i precipizii, dove siamo stati ebri e non saziati.

Dicevo, quasi per gioco: «Ora mi metto a piangere.» E oggi devo fare sforzi continui per respingere giù al cuore il nodo che sale dal cuore.

Che nome posso io darti, amica mia?

Sei senza nome come ogni cosa infinita.

Il tuo Gabri